Ricevo ed inoltro questo interessante articolo
che ha bisogno senz'altro di una lettura
approfondita e critica
pino parisi
C'erano una volta i beni comuni: l'aria, l'acqua, il bosco, il fiume, la spiaggia, i pascoli, e persino i campi che venivano dissodati e arati congiuntamente dalle comunità di villaggio. Nell'era moderna, il processo della loro appropriazione - e dell'esclusione di chi ne traeva il proprio sostentamento - è cominciato molto presto con le recinzioni [«enclosures»] dei pascoli in Inghilterra, che Marx pone a fondamento del meccanismo di accumulazione primitiva del capitale. Ed è proseguito nel tempo: molte delle rivoluzioni borghesi in Europa hanno messo capo a un processo analogo, per non parlare della conquista del West, in Nordamerica, a spese delle popolazioni indigene, o del colonialismo, che ha globalizzato questa pratica. Gli ultimi decenni, con il trionfo del liberismo e del cosiddetto «pensiero unico», si sono svolti all'insegna della privatizzazione di tutto l'esistente - persino dell'aria, con le quote di emissione - e della stigmatizzazione di tutto quanto è comune o condiviso. Ma la musica sta cambiando e deve cambiare.
Ciononostante, la difesa dei beni comuni, che oggi è il denominatore comune di tanti conflitti sociali, non si configura come un ritorno al passato, quando non tutto era ancora mercificato - e per questo «privatizzato» - in nome di un progresso che identifica efficienza e profitto. Certo, in molti casi - i più tipici sono quelli dell'acqua o delle aree protette - la difesa dei beni comuni si presenta a prima vista come una lotta contro la «novità» della loro privatizzazione. Ma La difesa dei beni comuni si presenta a prima vista come una lotta contro la «novità» della loro privatizzazione. Ma è fin da subito evidente che Pesito non può essere un ritorno al passato: il bene «comune» verrà salvaguardato come tale se per esso si svilupperà una forma di gestione totalmente nuova è fin da subito evidente che l'esito di una difesa del genere non può essere un ritorno alla situazione precedente.
Il bene «comune» verrà salvaguardato come tale solo se per esso si riuscirà a sviluppare una forma di gestione completamente nuova; sotto il controllo, anche se parziale e condiviso, e proprio per questo soggetto a continue revisioni, di coloro che si sono battuti contro la sua appropriazione privata, o che hanno dovuto accettare di rinunciare ad essa.
La soluzione non può essere ridotta a un trasferimento del bene sotto il controllo dello Stato. La proprietà «pubblica» di un bene comune, soprattutto se intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione territoriale, non offre di per sé alcuna garanzia di partecipazione, di condivisione, di comunanza, tra coloro che dovrebbero esserne i beneficiari. Lo si è abbondantemente sperimentato in Italia, dove la proprietà pubblica - nell'industria, nei servizi, nel demanio, ecc. - è stato il terreno di coltura della cosiddetta «casta», cioè di un potere politico asservito a interessi privati; e ancor più nei paesi che si dicono o si sono detti «comunisti», dove la proprietà dello stato è stata la base su cui è nata, si è sviluppata e poi si è «rigenerata» la cosiddetta nomenclatura: una vera e propria classe di «padroni pubblici».
Viceversa, una vera condivisione può essere solo il risultato di una negoziazione tra le parti in causa - i cosiddetti «stakeholder» - dei termini della gestione di un bene comune, cioè delle modalità di ripartizione dei costi e dei benefici che esso comporta, a condizione, ovviamente, che sia sorretta da una forza adeguata, soprattutto della parte in lotta per non essere esclusa dai suoi benefici.
Ma è proprio nel corso di una negoziazione del genere che, quando mancano, si possono costruire le forze necessarie per portarla a buon fine, e la chiarezza sulle poste in gioco, che ne costituisce la premessa indispensabile. E questo tanto più quanto più si è prossimi al bene conteso: cioè soprattutto a livello locale. Una negoziazione del genere rappresenta sicuramente un passo avanti significativo rispetto alla semplice rivendicazione di una proprietà pubblica del bene. Se nel caso dei beni «naturali» come l'acqua, o il suolo pubblico, soprattutto se edificabile, o le aree protette, l'equivoco che fa coincidere la difesa del bene comune con il ritorno allo stato precedente ha comunque qualche ragione di sussistere, esso viene decisamente meno nel caso dei beni comuni di nuova creazione, o di quelli che si ricreano ogni giorno, come l'informazione, la scienza, il sapere. Una posizione intermedia tra queste due categorie di beni - in prima approssimazione, tangibili e intangibili - è quella occupata da «beni» come la salute; che in parte è il frutto di interventi attivi, che vanno organizzati, a beneficio del maggior numero possibile di persone se il bene salute deve essere «comune»; in parte è un effetto della prevenzione, cioè della salvaguardia di una condizione che interventi umani o eventi naturali mettono a rischio. Lo stesso vale, per fare un altro esempio, nel caso della gestione dei rifiuti, che, propriamente parlando, non sono un «bene», ma un «male comune» ; ma è un bene comune un ambiente senza rifiuti.
La conoscenza, sia quella frutto di ricerca che quella prodotta dall'insegnamento o dall'esperienza diretta, e l'arte - ma anche l'arte è sempre conoscenza - sono entità che si costituiscono nel tempo, in mi mondo dove prima non c'erano: un'aggiunta allo stato di cose esistente, un «accrescimento dell'essere».
Promuoverne condivisione e soprattutto condivisibilità - fin dal momento della loro comparsa - le qualifica come beni comuni. Si pensi a una ricerca scientifica, a una lezione o a un seminario accademico, a un manifesto politico o culturale, a una musica, a una canzone, a un edificio, a una installazione artistica. Il modo in cui nascono li plasmano in una forma che ne condiziona natura, funzione e modalità di fruizione e di trasmissione, differenziandoli fin dalla loro comparsa dai beni creati o prodotti perché se ne appropri mi ristretto gruppo di detentori autorizzati.
Un secondo equivoco da evitare è l'idea che perché un «bene comune» sia tale occorre che soddisfi in eguale misura gli interessi di tutti, che cioè occorra trovare tra questi una piena armonia, individuandolo o realizzandolo come «il» Bene comune. Nell'orizzonte temporale su cui ci è dato di ragionare, che è quello genericamente rappresentato dal riferimento alle «genera-zioni future», molti degli interessi in campo nei confronti dei beni comuni continueranno a essere contrapposti: in alcuni casi parzialmente e marginalmente; in altri radicalmente e in modo frontale.
Un bene diventa comune non perché sul suo utilizzo, sulla sua valorizzazione, sulla sua messa al lavoro si riesce a far coincidere gli interessi di tutte le parti in causa, di tutti gli «stakehol-der» - per esempio, nel caso dell'acqua, utenti, cittadini, ecologisti, amministrazioni, gestori, imprese e loro azionisti - cosa evidentemente impossibile. Ma il confronto pubblico tra i diversi interessi che si contendono il bene e la definizione delle soluzioni per la sua gestione offrono la possibilità alle diverse forze in campo di schierarsi, di impegnarsi, eventualmente di accordarsi e, se necessario, di combattersi a ragion veduta.
Insomma: la difesa dei beni comuni non ha niente a che fare con l'utopia irenica di un «Bene comune», o addirittura del «Sommo Bene», in cui l'intera umanità, in tutte le sue articolazioni, dovrebbe riconoscersi.
Per i molti che dalla condivisione di un bene guadagnano, qualcun altro verosimilmente perde, o deve comunque rinunciare al lucro o ai benefici che si riprometteva di ricavare - o che già ricavava - dalla sua appropriazione. Il godimento dei beni comuni non è quindi uno «stato stazionario», ma un contesto dinamico, in cui il conflitto tra appropriazione e condivisione si ripropone continuamente in nuove forme e, verosimilmente, con schieramenti mutevoli.
Che cosa c'è allora di nuovo in un approccio al conflitto - anzi, ai conflitti - sotto le insegne della difesa dei beni comuni? Di veramente nuovo forse non c'è nulla. Il conflitto tra appropriazione e condivisione è vecchio come il mondo, anche se in tempi recenti è stato offuscato da un «pensiero unico» che assegna dignità, legittimità e realtà solo alla competizione, cioè al gioco delle spinte contrapposte all' appropriazione e alla spartizione. Ma di nuovo c'è sicuramente il tentativo di formulare i termini dei conflitti in modo meno rigido e statico di quanto altri tipi di approccio tendono a fare.
Gli schieramenti che si costituiscono nella contesa per fare di qualcosa un bene comune sono mobili, fluidi, legati a contesti locali, che possono variare allargando o restringendo sia l'ambito tematico che l'area territoriale o le forze sociali coinvolte: si costituiscono o disfano nel corso della negoziazione, anche sulla base dei suoi esiti temporanei; e non è scontato che si ripropongano sempre nella stessa forma ovunque e in ogni momento. Cambiando ambito tematico, o riferimenti territoriali, possono cambiare anche la collocazione delle forze in campo e gli schieramenti. Si definisce così una collocazione che corrisponde a un contesto sociale più variegato, più flessibile, meno definito - e anche, in gran parte, meno conosciuto - di quello sancito dalle contrapposizioni - spesso solo «teoriche», o virtuali - tra classi sociali, o tra schieramenti politici, o tra universi culturali, o tra religioni. In ogni caso questo approccio antepone la condivisione al conflitto; il coinvolgimento alla contrapposizione; la negoziazione alle scelte unilaterali; senza ovviamente rinunciare o escludere il secondo corno del dilemma. In questo senso, e solo in questo, può essere considerato ricerca di un bene comune: in un'epoca in cui la guerra ha ormai dispiegato tutti i suoi orrori e i conflitti non controllati rischiano di scivolare rapidamente verso guerre totali e permanenti.
La distinzione tra beni comuni e «Bene comune» rimanda indirettamente a un'altra contrapposizione, sulla quale, come su molte contese di questi anni, destra e sinistra - o quelle che una volta erano destra e sinistra - si sono scambiate le parti: la contrapposizione tra creare e distribuire ricchezza. Secondo alcuni esponenti della «destra», la sinistra ha sempre posto l'accento sulla distribuzione, o re-distribuzione, della ricchezza, senza molto curarsi della sua creazione ; mentre solo la creazione di ricchezza può garantire, pur nel permanere o nell'accentuar-si delle disparità, un vantaggio per tutti: come l'alta marea - si argomenta - solleva sia le barche grandi che quelle piccole.Di contro, la «sinistra» ha avuto - o potrebbe avere - buon gioco nel far notare che le politiche di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione e riduzioni fiscali [che sono appropriazione privata di un reddito prima pubblico] sostenute dalla destra - ma quanto non condvise anche dalla «sinistra»? - si sono rivelate di fatto la causa principale della contrazione e poi dell'arresto dello «sviluppo» nel corso degli ultimi decenni; cioè il maggior ostacolo alla crescita della ricchezza. E che dunque, la sperequazione dei redditi, cioè la loro re-distribuzione a vantaggio dei gruppi privilegiati che ha caratterizzato gli ultimi decenni non ha fatto bene a tutti, ma è avvenuta a spese delle fasce più deboli e ha giocato solo a favore del privilegio.Questa falsa contrapposizione non mette in discussione il concetto di ricchezza, che per entrambe le parti è la crescita, il Pil, lo «sviluppo» inteso come «Bene comune»; o addirittura come «Sommo Bene». Ma è ormai noto a tutte le persone oneste o di buon senso che le cose non stanno così. Ricchezza è molteplicità, varietà e qualità delle nostre relazioni con gli altri e con la natura; o, se vogliamo, con l'ambiente fisico [il territorio], sociale [i viventi], culturale [la storia, le tradizioni, il pensiero altrui, le nostre aspettative] e con le generazioni future, sia quelle oggetto dei nostri affetti [figli e nipoti] che della nostra considerazione, per lo più assai labile [coloro da cui «abbiamo in prestito» il mondo].Certo, tutte queste relazioni sono mediate da oggetti materiali [edifici, infrastrutture, utensili, ingredienti, abiti, suppellettili, libri, supporti audiovisivi, reperti, ecc.] o da prestazioni o attività di altre persone, che le discipline economiche chiamano servizi, e che per essere erogati hanno comunque bisogno anche loro di beni materiali. Ma gli oggetti che ci mettono in relazione con il mondo, aumentando la libertà di tutti senza chiudere nessuno nell'idiotismo culturale e nell'autismo consumistico, sono in larghissima parte cose condivise o condivisibili, cioè «beni comuni» o potenzialmente tali. Beni che, quanto più sono condivisi, tanto meno hanno bisogno di crescere di numero o di dimensioni per soddisfare i bisogni o i desideri di tutti.
La difesa e la promozione dei beni comuni costituiscono quindi la vera alternativa all'aumento indiscriminato di produzione e «consumi»; cioè al feticcio della crescita come «Bene comune».
Guido Viale