SOStieni il bene comune

lunedì 27 aprile 2009

Nella guera contro la Moschea la rivincita dei figli del fascismo


Di Don Paolo Farinela


Sabato, fu il 25 aprile 2009 che rimanda al 1945, giorno convenzionale della Liberazione dal nazi-fascismo. In quel giorno, infatti, si concluse la 2a guerra mondiale e in Italia anche quella partigiana, con la liberazione di Parma, Torino e Milano, mentre a Genova, con la mediazione del card. Pietro Boetto e del vescovo ausiliare Giuseppe Siri, il generale tedesco Gunther Meinhold si arrese al Comitato di Liberazione Nazionale.Il 25 aprile è la Festa nazionale della Liberazione. Liberazione da chi e da che cosa? Ci siamo illusi che fosse Liberazione dai fascisti e, infatti, dopo 64 anni ci ritroviamo i nipoti dei fascisti di allora al governo dell´Italia di oggi. Ci siamo illusi di esserci liberati dalla dittatura e, infatti, oggi ci ritroviamo con un alieno buffo e tronfio, arricchito con iniquità, che fa prove di dittatura piduista. Ci eravamo illusi che il Parlamento fosse il luogo inviolato e inviolabile della libertà e della dignità di una nazione e, invece, ce lo ritroviamo pleonastico, cassa di risonanza di un vuoto spinto di pensiero, di ideali e di dignità: caravanserraglio di servi striscianti di un padrone a-morale.Il Parlamento oggi non è espressione del libero voto di liberi cittadini, ma un bivacco occasionale, approdo di prescelti per fedeltà al capo e padrone che da quando (s)veste formalmente incarichi «costituzionali», cioè da sedici anni, diserta sistematicamente ogni manifestazione della Liberazione, tranne quest´anno: gli è intrinsecamente estranea perché declama diritti, doveri, dignità, lavoro, poteri bilanciati. L´Ingordo vuole tutto per sé, compreso un parlamento prono e succube.A 64 anni dalla Liberazione fa impressione vedere Gianfranco Fini, pupillo di Giorgio Almirante, figlio di primo letto del fascismo mussoliniano, sedere sullo scranno della Camera dei deputati a svolgere il ruolo di terza carica dello Stato di diritto a garantire imparzialità e democrazia. Povera storia partigiana!Dopo oltre 60 anni dalla Carta Costituzionale che fu il frutto più maturo e più bello della Liberazione, Genova è ancora alle prese con la guerra della moschea, intrapresa dai discendenti degli sconfitti di allora che non hanno mai rinnegato le idee e il concetto di Stato sconfitti con il fascismo e la guerra. Gli sconfitti di allora vogliono la rivincita oggi e vorrebbero riportare all´ordine del giorno il sentire e la visione degradata di quello pseudo Stato che la Liberazione seppellì sotto milioni di morti. Ci stanno provando in tutti i modi e la sinistra, o quel che resta degli scampoli superstiti di essa, si adegua inneggiando alla statura di statista dei fascisti di sempre. Una cosa però è certa: un fascista resta sempre un fascista, anche se si vernicia da democratico similpelle.Per noi, la Liberazione è un evento che riguarda il mondo intero: la nostra Carta, infatti, non è solo garanzia, ma anche prospettiva per chiunque ad essa si adegua e s´inchina con rispetto per onorare tutti coloro che in qualsiasi modo l´hanno resa possibile, fino a sacrificare la vita per noi che oggi ne usufruiamo. Tutti, esclusi i fascisti e quelli di Salò.Di seguito alcune perle della Carta di cui andiamo orgogliosi. L´Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro (1), non sulla finanza o sulla rendita. Il popolo è sovrano, ma nei limiti della Costituzione (2) che nessun burattinaio può prevaricare. Tutti i cittadini sono uguali davanti alla Legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua e di religione (3): non dice che Berlusconi è più uguale degli altri e sopra la Legge. Lo Stato e la Chiesa cattolica sono indipendenti e sovrani (7), non complici e correi di indecenti ammucchiate. L´Italia ripudia la guerra (11) che è il vertice inebriante della civiltà e cultura di ogni tempo che ci ripaga di essere italiane e italiani in questi tempi decaduti. Resisteremo fin oltre la morte in difesa di queste conquiste che per noi sono anche un traguardo.

sabato 25 aprile 2009

Acqua Bene Comune


Ciao a tutte/i,uno degli atti che porterà alla privatizzazione e liberalizzazione di tuttii servizi pubblici locali nella nostra regione avrà luogo lunedì 27 aprile agenova durante il Consiglio Comunale.Infatti i consiglieri saranno chiamati a votare una delibera che darà il viaalla fusione tra le due società Iride (Genova-Torino) e Enia (Emilia).Per contestare questa operazione siete invitati a partecipare alpresidio che si terrà a partire dalle ore 14.30 di lunedì davanti alla sededel Comune di Genova. Saranno distribuiti volantini, chi desidera il testo del volantino glielo mando.
L'ACQUA E' DI TUTTE/I, NON E' DEL COMUNE, NON E' DI IRIDE, NON E' DI ENIA!!!!!!!!!!!!!!
Di fronte ad una parte dell'umanità assetata, se facciamo in modo che l'acqua diventa un prodotto commerciale, che futuro prepariamo alle prossime generazioni?
Pino Parisi

giovedì 23 aprile 2009

Si fatica a trovare i soldi per l'Abruzzo ma si trovano per i cacciabombardieri F35

Ricevo e inoltro
Pino Parisi

Dodici miliardi quelli che servono (così dice Maroni) per ricostruire l'Abruzzo colpito dal terremoto e 12,9 miliardi quelli che due giorni dopo il sisma, l'8 aprile, le Commissioni Difesa di Camera e Senato hanno deciso, alla chetichella, di spendere per 131 cacciabombardieri F35 (una produzione a guida americana, cui partecipano l'Italia, l'Olanda, la Norvegia, la Gran Bretagna e altri paesi) che servono in guerre d'attacco (per sfondare le linee nemiche) e possono trasportare ordigni nucleari.

In realtà i costi sono superiori ai 12,9 miliardi.Si arriva a 15 miliardi se si aggiungono quelli già stanziati e quelli per la base di Cameri (Novara) dove verranno assemblati gli F35. Inoltre, esperti come il generale Fabio Mini ci dicono che gli F35 devono essere affiancati dai caccia F22, i Raptor. Che non abbiamo, ma ce li hanno, inutilizzati, gli Stati Uniti e dai quali saremo costretti a comprarne un po'. Altri soldi da aggiungere.....

La Lockeed -- chi si rivede- capocommessa dell'F35, chiede di accelerare. Il contratto per gli F35 è una gallina dalle uova d'oro: i costi lievitano giorno dopo giorno. La Corte dei Conti americana ha stigmatizzato in un rapporto di pochi giorni fa un aumento del 17% dei costi negli ultimi 10 mesi. Considerato che la conclusione del programma è prevista per il 2026, la spesa lievitata e finale potrebbe essere 4-5 volte quella preventivata. Una montagna di soldi. In Europa le critiche a questo programma di riarmo trovano voce nei parlamenti. Solo in Italia non succede -- quasi- niente........

Si tratta di un programma di riarmo folle, che arricchisce e rilancia il business delle corporation delle armi e che ha costi così alti che metterà in forse la stessa operatività delle forze armate italiane. Magari avremo gli F35, ma non i soldi per farli volare. A meno che come risposta al terremoto non volgiamo aumentare le spese militari.Aggiungiamo a questo articolo alcune nostre considerazioni:-Il cacciabombardiere F35 non è un aereo da difesa, ma da attacco. Risulta quindi incompatibile con l'articolo 11 della Costituzione italiana.-Si tratta quindi di una scelta sciagurata ed immorale.-Ci sarà chi dirà, escludendo ogni considerazione etica, che gli F35 e tutto quello che ad essi è connesso porteranno lavoro alle aziende italiane e quindi creeranno occupazione. Il premio Nobel per l'economia Leontief ha dimostrato che a parità di capitale impiegato creano molta più occupazione le aziende a produzione civile di quelle a produzione militare. Meglio quindi ricostruire l'Aquila con criteri antisismici e recuperare i suoi monumenti

lunedì 20 aprile 2009

Ospedale, ospedaletto....

Ricevo ed inoltro
Pino Parisi


L'urbanistica del tappullo continua a dare il meglio di se a Genova come in tutta Italia. Che oramai le grandi opere pubbliche siano viste come un grande affare con cui signori privati ricevono imponenti finanziamenti pubblici per opere inutili o quantomeno evitabili è un dato acquisito. E' il caso dell'ospedale del ponente. Ora questa è una storia elettorale e finanziaria - di sanitario non ha nulla - che si trascina da anni, quando l'allora Presidente Biasotti decise che il nuovo ospedale del ponente si doveva fare nelle aree ex Miralanza a Rivarolo. Ovviamente non aveva consultato i suoi uffici, non aveva setito i cittadini, se l'era pensata da solo e da solo ha fatto un contratto con i proprietari dell'area - Pirelli Re - che prevede e prevedeva robustissime penali in caso di mancata costruzione. La zona era si centrale per la Valk Polcevera, ben raggiungibile e ben servita, purtroppo era troppo servita, circondata com'era da runorosissime linee ferroviarie, centri logistici, traffico ad alta intensità acustica e smog. In sostanza un sito bello per giocarci a nascondino - infatti era pieno di rumeni clandestini - ma non avrebbe mai superato le necessarie verifiche di legge.Non paghi di questa esperienza - che presto o tardi avra' effetti speciali sui conti della Regione Liguria - cambiati gli attori, il gioco resta lo stesso: dove lo facciamo l'ospedale del ponente? E giu' ipotesi e idee , in generale una piu' balzana dell'altra: da Fegino a Multedo da Cornigliano alle aree Marconi - con congruissimo guadagno per la Ericsson in prospettiva Erzelli - a chissa' dove.Ovviamente, il partito del cemento non si occupa di pianificazione , o meglio pianifica per i suoi interessi, non certo per quelli pubblici e le Amministrazioni Pubbliche dando prova di incredibile coerenza bipartisan si accodano all'opera di marketing nella speranza di raccattare voti qui o la.La domanda a cui tutti sfuggono è sempre la stessa: ma l'ospedale del ponente serve?Ecco diamo una risposta chiara e semplice: no. L'ospedale del ponente serve ai venditori di fumo , alle banche, ai costruttori, ai produttori di apparecchiature sanitarie, non serve alla popolazione.E questo lo dicono i numeri, numeri impietosi invero, che ci dicono che Genova è ben fornita di centri di eccellenza per le urgenze, non c'è un solo punto della città da cui non si possa arrivare in tempo utile in ospedale per avere le cure necessarie, e neanche mancano i posti letto per queste esigenze, quello che manca è tutto il resto. Mancano gli interventi a monte o a valle, l'assistenza domiciliare, i medici e i pediatri che vadano a casa la sera e la domenica, gli psichiatri in grado di intervenire per le urgenze festive, un controllo del territorio che impedisca le consuete risse con ferite -e ricoveri - davanti ai bar. Mancano anche i centri di riabilitazione post ospedaliera, le Residenze Assistite per anziani, giovani in difficoltà, malati terminali, mancano i centri di accoglienza per le famiglie dei ricoverati, i centri che distribuiscano i farmaci a prezzi sostenibili per i pensionati che campano con 500 euro al mese - e sono la maggioranza -. In assenza di una pianificazione fatalmente gli ospedali assumono il ruolo improprio di tamponatori del disagio e del malessere di tutta la città, ruolo che non hanno la vocazione e neanche le competenze per assolvere.Finisce che teniamo occupati per giorni e giorni posti in pronto soccorso e nei reparti, posti costosissimi per le finanze pubbliche , perchè non riusciamo, e forse non vogliono mettere mano ai veri nodi della sanita' e della assistenza, nodi che potrebbero essere affrontati a costi infinitamente piu' bassi di quelli attuali se una volonta' politica del tappullo e dello spot non lo impedisse.Gli ospedali a Genova ci sono, forse ce ne sono anche troppi, l'ospedale di Sampierdarena è un gioiellino che se potesse occuparsi di quello a cui sarebbe vocato basterebbe e avanzerebbe, poi ci sono gli altri ospedali del ponente: Voltri, Sestri, Pontex, sono piccoli e in certi casi poco funzionali, ma certo sarebbero piu' che sufficienti a rispondere alle esigenze vere , non gridate , dei residenti e comunque alcuni buoni e mirati investimenti in tecnologie e riqualificazioni edilizie basterebbero e avanzerebbero alla bisogna. Certo bisognerebbe aprire la pagina del dibattito pubblico, quella che lor signori e signorotti non vogliono aprire, mettere in chiaro numeri, priorita', vantaggi e svantaggi, quello che nessuno degli interessati al business vuol fare.Ma lor signori devono per fortuna - anche se temo non per molto - fare i conti con le leggi - quelle che non hanno ancora fatto a loro uso e consumo - e quindi la favola dell'ospedale del ponente, favola che cercano di venderci da anni restera' ancora per molto una gran bella favola.Pero' ci auguriamo che anche in questo caso la svolta impressa dalla sindaco Vincenzi nel caso della Gronda sia percorsa dalla Amministrazione Comunale e porti ad una soluzione partecipata e sostenibile del problema, i soldi ci sono, se ne potrebbero anche risparmiare molti, è la volonta' politica che latita. Andrea Agostinidel circolo nuova ecologia legambiente genova

venerdì 17 aprile 2009

Il Futuro non è scritto

Riceviamo dalla Casa della Legalità, pubblichiamo e partecipiamo

Pino Parisi

IL FUTURO NON E' SCRITTO...PER RIVAROLO E LA VALPOLCEVERA

GENOVA18 aprile 2009ore 15:30

Piazza Petrella

vai alla presentazionedella manifestazione

ed al VIDEO


martedì 14 aprile 2009

BOCCADASSE: MA CHE BELLA BOTTA !!!!

Ricevo da Andrea ed inoltro volentieri
Pino


La complicatissima vicenda della trasformazione dell'area della ex rimessa Amt di Boccadasse ha imboccato uno " svincolo " che fa intravvedere un lieto fine ( forse ).
La vicenda è risaputa e ancora da districare nei suoi risvolti giuridico amministrativi, ma , in attesa che l'inchiesta della magistratura faccia il suo corso e che la procura chiuda la partita ( im maniera ovviamente decisiva ), la strada che l'Amministrazione ha proposto nella assemblea di lunedi a Boccadasse ha tutte le caratteristiche per proporsi come una architrave delle politiche del territorio della Amministrazione della sindaco Vincenzi.

Il rispetto del piano regolatore, il non ricorso alle continue varianti, la scelta di ridurre il volume del costruito, la fine degli oneri di urbanizzazione a base cementizia e infine l'accoglimento delle idee e proposte dei cittadini e delle associazioni in un percorso partecipato in cui finalmente i cittadini sono in grado di dire la loro è una scelta da accogliere con massimo favore.

Lo schema è presto detto:

Innanzitutto chi decide sul territorio non è piu' il privato che propone e - nei fatti - dispone, ma l' Amministrazione Pubblica che prepara uno schema che tenga conto dell'interesse pubblico e delle osservazioni e proposte dei cittadini, dopo l'imprenditore e l'architetto di turno faranno il loro lavoro.
E in questo caso il SAU ( schema di assetto urbanistico ) preparato dagli uffici e fatto proprio dalla Amministrazione è una soluzione urbanistica di tutto rispetto.

In sostanza si concentra tutto il costruito in maniera da poter utilizzare al massimo l'area per l'uso pubblico, si evita la presenza di attrattori di traffico che in un'area gia' congestionata non dovrebbero proprio esserci, si garantisce un aumento dei posti macchina pubblici nell'area, si organizza la circolazione in zona in maniere da imprimere un ( possibile ) ordine a una circolazione che in alcune ore e in alcune stagioni è caotica e assordante.

Si garantisce una qualità abitativa ai nuovi residenti senza che si creino danni a terzi e salvaguardando l'identità storica dell'area ( per quanto possibile ).

Anche il proposto concorso di idee per la sistemazione dell'ampia zona a verde prevista è una buona scelta, anche in questo caso il verde non deve essere solo un elemento decorativo, ma deve essere immaginato per rendere fruibile quell'area e per allargare gli spazi pubblici di socialità per i residenti e per i numerosissimi visitatori. Anche in questo caso il parere dei cittadini residenti potra' essere illuminante.

Certo, non tutto è perfetto, le altezze del costruito si possono ancora " limare " i giardini previsti per gli appartamenti a piano terra vanno pensati in maniera di mantenere unità estetica e fruitoria all'area, i parcheggi ( che comunque saranno solo pertinenziali ) potranno essere ulteriormente ridotti e collegati alle sole nuove residenze previste, il risanamento dell'area è ancora tutto da definire e la situazione idrogeologica del sito è tutt'altro che di facile gestione. Pero' le promesse ci sono tutte. Non resta che andare avanti.

Andando avanti si potrebbe piu' in generale utilizzare lo stesso scema politico, amministrativo, giuridico, anche per altre importanti questioni in corso di definizione: l'area dei mercati generali di corso Sardegna, l'area Verrina a Voltri, la ex Caserma Gavoglio al Lagaccio, la prevista ridefinizione complessiva dell'area da via Degola a via Avio a Sampierdarena, l' area ex Miralanza a Rivarolo e molte altre.

Negli anni una cosa è andata sempre più chiarendosi: i cittadini non sono piu' disposti a lasciare porzioni del loro territorio in mano a speculatori che agiscono impunemente godendo della subalternità culturale dei tecnici delle amministrazioni e degli appoggi politici che la triade mattone , finanza, logistica hanno saputo garantirsi nei decenni.

Piu' che una botta a Bocadasse si è sentito risuonare un bel colpo, il rumore di un'applauso che ha il sapore di una ritrovata fiducia tra i cittadini e i politici che sono stati chiamati a rappresentarli.

andrea agostini
del circolo nuova ecologia legambiente genova

giovedì 9 aprile 2009

Beni comuni e «bene comune»


Ricevo ed inoltro questo interessante articolo

che ha bisogno senz'altro di una lettura

approfondita e critica

pino parisi


C'erano una volta i beni comuni: l'aria, l'acqua, il bosco, il fiume, la spiaggia, i pascoli, e persino i campi che venivano dissodati e arati congiuntamente dalle comunità di villaggio. Nell'era moderna, il processo della loro appropriazione - e dell'esclusione di chi ne traeva il proprio sostentamento - è cominciato molto presto con le recinzioni [«enclosures»] dei pascoli in Inghilterra, che Marx pone a fondamento del meccanismo di accumulazione primitiva del capitale. Ed è proseguito nel tempo: molte delle rivoluzioni borghesi in Europa hanno messo capo a un processo analogo, per non parlare della conquista del West, in Nordamerica, a spese delle popolazioni indigene, o del colonialismo, che ha globalizzato questa pratica. Gli ultimi decenni, con il trionfo del liberismo e del cosiddetto «pensiero unico», si sono svolti all'insegna della privatizzazione di tutto l'esistente - persino dell'aria, con le quote di emissione - e della stigmatizzazione di tutto quanto è comune o condiviso. Ma la musica sta cambiando e deve cambiare.
Ciononostante, la difesa dei beni comuni, che oggi è il denominatore comune di tanti conflitti sociali, non si configura come un ritorno al passato, quando non tutto era ancora mercificato - e per questo «privatizzato» - in nome di un progresso che identifica efficienza e profitto. Certo, in molti casi - i più tipici sono quelli dell'acqua o delle aree protette - la difesa dei beni comuni si presenta a prima vista come una lotta contro la «novità» della loro privatizzazione. Ma La difesa dei beni comuni si presenta a prima vista come una lotta contro la «novità» della loro privatizzazione. Ma è fin da subito evidente che Pesito non può essere un ritorno al passato: il bene «comune» verrà salvaguardato come tale se per esso si svilupperà una forma di gestione totalmente nuova è fin da subito evidente che l'esito di una difesa del genere non può essere un ritorno alla situazione precedente.

Il bene «comune» verrà salvaguardato come tale solo se per esso si riuscirà a sviluppare una forma di gestione completamente nuova; sotto il controllo, anche se parziale e condiviso, e proprio per questo soggetto a continue revisioni, di coloro che si sono battuti contro la sua appropriazione privata, o che hanno dovuto accettare di rinunciare ad essa.

La soluzione non può essere ridotta a un trasferimento del bene sotto il controllo dello Stato. La proprietà «pubblica» di un bene comune, soprattutto se intesa come proprietà dello Stato o di una sua articolazione territoriale, non offre di per sé alcuna garanzia di partecipazione, di condivisione, di comunanza, tra coloro che dovrebbero esserne i beneficiari. Lo si è abbondantemente sperimentato in Italia, dove la proprietà pubblica - nell'industria, nei servizi, nel demanio, ecc. - è stato il terreno di coltura della cosiddetta «casta», cioè di un potere politico asservito a interessi privati; e ancor più nei paesi che si dicono o si sono detti «comunisti», dove la proprietà dello stato è stata la base su cui è nata, si è sviluppata e poi si è «rigenerata» la cosiddetta nomenclatura: una vera e propria classe di «padroni pubblici».

Viceversa, una vera condivisione può essere solo il risultato di una negoziazione tra le parti in causa - i cosiddetti «stakeholder» - dei termini della gestione di un bene comune, cioè delle modalità di ripartizione dei costi e dei benefici che esso comporta, a condizione, ovviamente, che sia sorretta da una forza adeguata, soprattutto della parte in lotta per non essere esclusa dai suoi benefici.

Ma è proprio nel corso di una negoziazione del genere che, quando mancano, si possono costruire le forze necessarie per portarla a buon fine, e la chiarezza sulle poste in gioco, che ne costituisce la premessa indispensabile. E questo tanto più quanto più si è prossimi al bene conteso: cioè soprattutto a livello locale. Una negoziazione del genere rappresenta sicuramente un passo avanti significativo rispetto alla semplice rivendicazione di una proprietà pubblica del bene. Se nel caso dei beni «naturali» come l'acqua, o il suolo pubblico, soprattutto se edificabile, o le aree protette, l'equivoco che fa coincidere la difesa del bene comune con il ritorno allo stato precedente ha comunque qualche ragione di sussistere, esso viene decisamente meno nel caso dei beni comuni di nuova creazione, o di quelli che si ricreano ogni giorno, come l'informazione, la scienza, il sapere. Una posizione intermedia tra queste due categorie di beni - in prima approssimazione, tangibili e intangibili - è quella occupata da «beni» come la salute; che in parte è il frutto di interventi attivi, che vanno organizzati, a beneficio del maggior numero possibile di persone se il bene salute deve essere «comune»; in parte è un effetto della prevenzione, cioè della salvaguardia di una condizione che interventi umani o eventi naturali mettono a rischio. Lo stesso vale, per fare un altro esempio, nel caso della gestione dei rifiuti, che, propriamente parlando, non sono un «bene», ma un «male comune» ; ma è un bene comune un ambiente senza rifiuti.
La conoscenza, sia quella frutto di ricerca che quella prodotta dall'insegnamento o dall'esperienza diretta, e l'arte - ma anche l'arte è sempre conoscenza - sono entità che si costituiscono nel tempo, in mi mondo dove prima non c'erano: un'aggiunta allo stato di cose esistente, un «accrescimento dell'essere».

Promuoverne condivisione e soprattutto condivisibilità - fin dal momento della loro comparsa - le qualifica come beni comuni. Si pensi a una ricerca scientifica, a una lezione o a un seminario accademico, a un manifesto politico o culturale, a una musica, a una canzone, a un edificio, a una installazione artistica. Il modo in cui nascono li plasmano in una forma che ne condiziona natura, funzione e modalità di fruizione e di trasmissione, differenziandoli fin dalla loro comparsa dai beni creati o prodotti perché se ne appropri mi ristretto gruppo di detentori autorizzati.
Un secondo equivoco da evitare è l'idea che perché un «bene comune» sia tale occorre che soddisfi in eguale misura gli interessi di tutti, che cioè occorra trovare tra questi una piena armonia, individuandolo o realizzandolo come «il» Bene comune. Nell'orizzonte temporale su cui ci è dato di ragionare, che è quello genericamente rappresentato dal riferimento alle «genera-zioni future», molti degli interessi in campo nei confronti dei beni comuni continueranno a essere contrapposti: in alcuni casi parzialmente e marginalmente; in altri radicalmente e in modo frontale.
Un bene diventa comune non perché sul suo utilizzo, sulla sua valorizzazione, sulla sua messa al lavoro si riesce a far coincidere gli interessi di tutte le parti in causa, di tutti gli «stakehol-der» - per esempio, nel caso dell'acqua, utenti, cittadini, ecologisti, amministrazioni, gestori, imprese e loro azionisti - cosa evidentemente impossibile. Ma il confronto pubblico tra i diversi interessi che si contendono il bene e la definizione delle soluzioni per la sua gestione offrono la possibilità alle diverse forze in campo di schierarsi, di impegnarsi, eventualmente di accordarsi e, se necessario, di combattersi a ragion veduta.
Insomma: la difesa dei beni comuni non ha niente a che fare con l'utopia irenica di un «Bene comune», o addirittura del «Sommo Bene», in cui l'intera umanità, in tutte le sue articolazioni, dovrebbe riconoscersi.

Per i molti che dalla condivisione di un bene guadagnano, qualcun altro verosimilmente perde, o deve comunque rinunciare al lucro o ai benefici che si riprometteva di ricavare - o che già ricavava - dalla sua appropriazione. Il godimento dei beni comuni non è quindi uno «stato stazionario», ma un contesto dinamico, in cui il conflitto tra appropriazione e condivisione si ripropone continuamente in nuove forme e, verosimilmente, con schieramenti mutevoli.
Che cosa c'è allora di nuovo in un approccio al conflitto - anzi, ai conflitti - sotto le insegne della difesa dei beni comuni? Di veramente nuovo forse non c'è nulla. Il conflitto tra appropriazione e condivisione è vecchio come il mondo, anche se in tempi recenti è stato offuscato da un «pensiero unico» che assegna dignità, legittimità e realtà solo alla competizione, cioè al gioco delle spinte contrapposte all' appropriazione e alla spartizione. Ma di nuovo c'è sicuramente il tentativo di formulare i termini dei conflitti in modo meno rigido e statico di quanto altri tipi di approccio tendono a fare.
Gli schieramenti che si costituiscono nella contesa per fare di qualcosa un bene comune sono mobili, fluidi, legati a contesti locali, che possono variare allargando o restringendo sia l'ambito tematico che l'area territoriale o le forze sociali coinvolte: si costituiscono o disfano nel corso della negoziazione, anche sulla base dei suoi esiti temporanei; e non è scontato che si ripropongano sempre nella stessa forma ovunque e in ogni momento. Cambiando ambito tematico, o riferimenti territoriali, possono cambiare anche la collocazione delle forze in campo e gli schieramenti. Si definisce così una collocazione che corrisponde a un contesto sociale più variegato, più flessibile, meno definito - e anche, in gran parte, meno conosciuto - di quello sancito dalle contrapposizioni - spesso solo «teoriche», o virtuali - tra classi sociali, o tra schieramenti politici, o tra universi culturali, o tra religioni. In ogni caso questo approccio antepone la condivisione al conflitto; il coinvolgimento alla contrapposizione; la negoziazione alle scelte unilaterali; senza ovviamente rinunciare o escludere il secondo corno del dilemma. In questo senso, e solo in questo, può essere considerato ricerca di un bene comune: in un'epoca in cui la guerra ha ormai dispiegato tutti i suoi orrori e i conflitti non controllati rischiano di scivolare rapidamente verso guerre totali e permanenti.
La distinzione tra beni comuni e «Bene comune» rimanda indirettamente a un'altra contrapposizione, sulla quale, come su molte contese di questi anni, destra e sinistra - o quelle che una volta erano destra e sinistra - si sono scambiate le parti: la contrapposizione tra creare e distribuire ricchezza. Secondo alcuni esponenti della «destra», la sinistra ha sempre posto l'accento sulla distribuzione, o re-distribuzione, della ricchezza, senza molto curarsi della sua creazione ; mentre solo la creazione di ricchezza può garantire, pur nel permanere o nell'accentuar-si delle disparità, un vantaggio per tutti: come l'alta marea - si argomenta - solleva sia le barche grandi che quelle piccole.Di contro, la «sinistra» ha avuto - o potrebbe avere - buon gioco nel far notare che le politiche di deregolamentazione, liberalizzazione, privatizzazione e riduzioni fiscali [che sono appropriazione privata di un reddito prima pubblico] sostenute dalla destra - ma quanto non condvise anche dalla «sinistra»? - si sono rivelate di fatto la causa principale della contrazione e poi dell'arresto dello «sviluppo» nel corso degli ultimi decenni; cioè il maggior ostacolo alla crescita della ricchezza. E che dunque, la sperequazione dei redditi, cioè la loro re-distribuzione a vantaggio dei gruppi privilegiati che ha caratterizzato gli ultimi decenni non ha fatto bene a tutti, ma è avvenuta a spese delle fasce più deboli e ha giocato solo a favore del privilegio.Questa falsa contrapposizione non mette in discussione il concetto di ricchezza, che per entrambe le parti è la crescita, il Pil, lo «sviluppo» inteso come «Bene comune»; o addirittura come «Sommo Bene». Ma è ormai noto a tutte le persone oneste o di buon senso che le cose non stanno così. Ricchezza è molteplicità, varietà e qualità delle nostre relazioni con gli altri e con la natura; o, se vogliamo, con l'ambiente fisico [il territorio], sociale [i viventi], culturale [la storia, le tradizioni, il pensiero altrui, le nostre aspettative] e con le generazioni future, sia quelle oggetto dei nostri affetti [figli e nipoti] che della nostra considerazione, per lo più assai labile [coloro da cui «abbiamo in prestito» il mondo].Certo, tutte queste relazioni sono mediate da oggetti materiali [edifici, infrastrutture, utensili, ingredienti, abiti, suppellettili, libri, supporti audiovisivi, reperti, ecc.] o da prestazioni o attività di altre persone, che le discipline economiche chiamano servizi, e che per essere erogati hanno comunque bisogno anche loro di beni materiali. Ma gli oggetti che ci mettono in relazione con il mondo, aumentando la libertà di tutti senza chiudere nessuno nell'idiotismo culturale e nell'autismo consumistico, sono in larghissima parte cose condivise o condivisibili, cioè «beni comuni» o potenzialmente tali. Beni che, quanto più sono condivisi, tanto meno hanno bisogno di crescere di numero o di dimensioni per soddisfare i bisogni o i desideri di tutti.

La difesa e la promozione dei beni comuni costituiscono quindi la vera alternativa all'aumento indiscriminato di produzione e «consumi»; cioè al feticcio della crescita come «Bene comune».

Guido Viale

lunedì 6 aprile 2009

Music for peace, incubo egiziano da venti giorni stop alla frontiera


Ricevo ed inoltro
Pino Parisi

I resoconti che arrivano dal paese egiziano di El Arish, a cinquanta chilometri dal confine con Israele, potrebbero rivelare al mondo l´ennesimo spreco scandaloso di aiuti umanitari. Secondo i volontari dell´associazione genovese Music for Peace, bloccati ormai da venti giorni con il loro carico di 36 tonnellate di cibo, sarebbero, a stare anche alla denuncia dell´Autorità nazionale Palestinese, oltre diecimila le tonnellate di prodotti alimentari ferme a marcire sotto il sole, nei container parcheggiati nella città di 115 mila abitanti affacciata sul Mediterraneo.Stefano Rebora e gli altri volontari di Music for Peace sono partiti da Genova il 9 marzo in aereo. Quattro container erano arrivati al porto di Alessandria l´11 marzo e sdoganati il 16.La loro destinazione era la striscia di Gaza per portare gli aiuti, raccolti a Genova e in Liguria, alla popolazione palestinese che sta soffrendo le conseguenze delle operazioni militari israeliane. Ma dall´Egitto sono transitati solo i due container con i farmaci. Gli alimentari sono stati confinati nei depositi dell´organizzazione World Food Program assieme ad altre migliaia di tonnellate di prodotti provenienti da tutto il mondo.Le procedure per riuscire a convincere le autorità egiziane e israeliane a liberare il carico sono complicatissime.«Oggi, quasi con stupore, vediamo le 36 tonnellate del nostro carico imballate in pallets, come Egitto e Israele desiderano. L´ennesima richiesta delle autorità è stata esaudita. Quali saranno le prossime…?» si chiedevano ieri sul loro diario on line (http://www.creatividellan/ottemusicforpeace.org) i volontari genovesi.Stefano Rebora, presidente dell´associazione: «Una tarantella burocratica impressionante, in 14 missioni mai riscontrate tante difficoltà, o per meglio dire, l´impossibilità di portare gli aiuti a destinazione come in questo caso. Chiediamo aiuto alla Farnesina, cui abbiamo già rivolto numerosi appelli attraverso l´ambasciata. Sulla parola c´è l´impegno di tutti, i risultati però non ci sono».
Marco Preve

sabato 4 aprile 2009

No alle ronde, sì agli immigrati in divisa


ricevo ed inoltro

Pino Parisi


LA POLIZIA deve aprirsi agli stranieri, solo così riusciremo a sconfiggere le mafie che vengono dall'estero. Come hanno fatto gli Stati Uniti con gli italiani: il nostro Joe Petrosino sarà africano o romeno». Non è una provocazione quella di Enzo Marco Letizia, segretario dell'Associazione Nazionale di Polizia, ma una proposta vera e propria, lanciata ieri a Palazzo Rosso in occasione del convegno "Sicurezza nelle città, dalla prevenzione sociale alla tolleranza zero", organizzata dall'associazione insieme al sindacato di polizia Siap.Il giudizio di Letizia non è tenero nei confronti del modo in cui viene affrontato oggi il tema della criminalità. «La sicurezza reale in Italia è molto superiore a quella percepita - spiega - Le ronde sono fallimentari, un placebo che non serve a nulla. Lo dimostrano tutte le statistiche. Basta controllare i dati della realtà americana, a cui questo modello guarda. In Italia, che conta 60 milioni di abitanti, nel 2007 sono stati commessi 585 omicidi, un centinaio in più di quelli avvenuti nel solo Stato di New York, dove abitano otto milioni di persone. Lì sono attivi da anni i Guardian Angels, un'organizzazione simile a quelle che si vorrebbero creare da noi, ma la situazione è molto peggiore della nostra».Nello stesso periodo, a Genova sono stati commessi 3 omicidi, 29 violenze sessuali, 400 rapine e 10mila furti. «Non si può parlare di tolleranza zero senza garantire la certezza della pena - continua Letizia - Quanto ai numeri dei nostri organici, è vero che in Italia c'è più polizia, ma ci sono anche meno reati. E la realtàè che siamo sotto organico, come ha ricordato anche il sottosegretario Mantovano, mancano 25mila uomini. Noi chiediamo che i soldi che vengono spesi per queste forme alternative di controllo del territorio tornino allo Stato e vengano ridestinati alla polizia, a cui sono stati tagliati i fondi.

Marco Grasso

mercoledì 1 aprile 2009

«L’acqua è un diritto, non un bisogno. Nessuno può derubarci della vita»]


di Paolo Farinella


Il 22 marzo, giornata mondiale dell’acqua, a Istanbul in Turchia si è chiuso il V Forum Mondiale sull’acqua. Il documento finale si chiude prendendo per i fondelli l’umanità intera perché definisce l’acqua come «bisogno» non come «diritto». La differenza è abissale. Che sia un bisogno lo sanno anche i dementi «crociati» che portavano acqua davanti alla clinica di Eluana Englaro perché pensavano che la povera ragazza potesse bere a garganella. Eppure è vero che il nostro organismo per il 75% è acqua. Che l’acqua sia un diritto è la conseguenza logica e organica di tutte le carte (e le chiese) che parlano di «diritto alla vita». Già oggi un miliardo di persone non ha l’acqua minima per la sopravvivenza. I difensori distratti della vita in ogni forma e ad ogni costo non pensano che la mancata «idratazione necessaria» sia già una strage preventiva annunciata? Da un punto di vista ecclesiale cattolico, non dovrebbe esserci la scomunica immediata per chi procura la morte certa di uomini, donne e bambini appena nati?
Il Forum si limita ad esortare ad un uso più razionale dell’acqua e a lottare contro l’inquinamento delle falde acquifere. A riguardo Paolo Rumiz ( la Repubblica del 22-03-2009, p. 19) ci informa da par suo che l’alta velocità tra Firenze a Bologna per recuperare 22 minuti di tempo si è mangiata 81 torrenti, 37 sorgenti, 30 pozzi 5 acquedotti per un totale di km 100 di corsi di acqua. A questa seguirà anche l’alta velocità della Val di Susa che dovrebbe scavare sotto le montagne per 50 km e in Liguria siamo alle prese con la gronda in almeno 5 varianti, segno che anche il comune naviga a vista. Ci domandiamo: a quale prezzo di sistema e di civiltà? Vale la pena risparmiare 22 minuti di tempo e spegnere km 100 di corsi d’acqua? Il comune di Genova ha calcolato le conseguenze idriche della gronda? Dice un proverbio antico che coloro che Dio vuole perdere prima li fa impazzire e siamo certi che attualmente a livello mondiale e giù giù fino al più basso gradino del potere siamo governati da pazzi furiosi, incapaci di cogliere le esigenze di oggi e contemperarle con le necessità di domani. Ciechi che guidano altri ciechi.
Lo stesso giorno, il 22 marzo, come marziani venuti sulla terra una sessantina di persone si sono trovate, di domenica pomeriggio, in San Torpete per parlare dell’acqua «bene comune»: organizzatori e partecipanti hanno ragionato e riflettuto sulla necessità che i governanti proteggano la propria gente, i più deboli e i più vulnerabili che non riescono nemmeno a pagare il minimo consumo. I comuni dovrebbero garantire un minimo vitale/igienico di acqua gratis per ciascuno e far pagare il restante in base al consumo. Così non è e non sarà. In forza della legge Galli 36/1994 che riunifica acquedotti, fognature e depurazioni per una politica omogenea, il comune di Genova già nel 1996 ha pensato bene di considerare l’acqua non come «bene comune primario/essenziale», ma come «merce» quotando in borsa Amga spa ed esponendo quindi il «bene comune» alle follie del mercato e quindi alla speculazione finanziaria. Il gruppo «Iride» si sta fondendo con Enìa con sede a Reggio Emilia per gestire il servizio idrico integrato di tutto il nord Italia, secondo un accordo raggiunto nell’ottobre 2008 tra i sindaci di Torino, Genova, Parma, Piacenza e Reggio Emilia. Attualmente l’Iride ricava solo il 6% degli utili dall’acqua che quindi verrà messa in un calderone finanziario che avrà tutto l’interesse a sviluppare l’energia, i rigassificatori e le nuove centrali nucleari che un governo miope vuole reintrodurre (anche in Liguria), mentre l’acqua sarà tassata per distribuire utili ai soci a spese dell’eterno Pantalone che paga muto e rassegnato. Fino a quando sopporteremo pazientemente soprusi e furti senza nemmeno indignarci per essere derubati anche della vita?